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La colpa della scarsa crescita dell’Italia viene attribuita alle dimensioni delle sue aziende. Ma sono proprio le Pmi a trainare il Made in Italy

 

Il mainstream secondo il quale alle radici della scarsa crescita dell’economia italiana vi sia un’alta presenza di piccole imprese si è rafforzato negli ultimi tempi. Sul fatto che ci sia una bassa crescita non ci sono dubbi: sulla base dei dati del Fondo Monetario Internazionale il Pil pro capite reale tra il 2007, prima dello scoppio della Grande crisi, e il 2022, dopo la recessione da Covid-19, in Italia scende dell’8% mentre in Francia sale del 6,7% e in Germania del 14,0%.

 

Ma sulle cause della stagnazione il caso della manifattura ci racconta una storia diversa: infatti, proprio l’Italia, con una più bassa dimensione media delle imprese (10 addetti medi per impresa) rispetto a Germania (media di 39 addetti) registra una maggiore crescita del valore aggiunto, segnando un + 7,8% tra 2015 e 2019, a fronte del +4,6% della Germania. La manifattura italiana, caratterizzata da una maggiore presenza di micro e piccole imprese, ha registrato tra il 2015 e il 2020 una crescita della produttività del 4,3% a fronte di un calo della Germania (-1,2%).

 

L’Italia è al primo posto nell’Unione europea per export diretto delle micro e piccole imprese manifatturiere, che ammonta a 60,0 miliardi di euro, pari al 3,4% del Pil, più che doppio rispetto all’1,6% della media Ue e ampiamente superiore all’1,0% della Germania. Il saldo del commercio estero – che contribuisce alla crescita del Pil – generato dalle micro e piccole imprese paga il 77,1% della bolletta energetica. Il successo della produzione italiana sui mercati esteri si fonda sulla vocazione all’innovazione e alla qualità e l’analisi degli ultimi dati resi disponibili dall’Istat evidenzia che il segmento maggiormente dinamico per spesa in ricerca e sviluppo è proprio quello delle piccole imprese, che segna un aumento annuo del 15,8%, più del doppio del +7,4% registrato dalla media delle imprese.

 

Nei quattro anni precedenti allo scoppio della crisi Covid-19, il 91,4% della crescita del valore aggiunto manifatturiero proviene dalle prime dieci regioni. Di queste, nove crescono più della Germania, mentre tre – Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Puglia – evidenziano un ritmo di crescita doppio della prima economia europea. In queste nove regioni la quota di addetti nelle micro e piccole imprese manifatturiere è pari al 54%, a fronte del 19,7% della manifattura tedesca. Le tre province leader della manifattura italiana – Modena, Vicenza e Reggio Emilia – realizzano, in media, un valore aggiunto della manifattura per abitante del 45% superiore a quello della Germania.

 

Altri quattro casi – esaminati in collaborazione con Licia Redolfi dell’Osservatorio MPI di Confartigianato Lombardia – stilizzano la forza dei territori caratterizzati dalla presenza diffusa di piccole imprese. In una classifica ibrida con i paesi dell’Unione europea il “quadrilatero manifatturiero” di Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si colloca al quinto posto per export totale, dietro a Germania, Paesi Bassi, Francia, Belgio e davanti a importanti economie manifatturiere come quelle di Spagna, Polonia e Repubblica Ceca.

 

Le dodici province sull’”asse dei mobili” della pianura padana che comprende Udine, Pordenone, Venezia, Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano, Monza e Brianza e Como, nel loro complesso sono il terzo esportatore europeo di mobili, dietro a Polonia e Germania.

Il “triangolo dei macchinari” di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto concentra oltre i due terzi (68,8%) delle esportazioni italiane del settore. Nella classifica ibrida queste tre regioni si collocano al terzo posto nell’Unione europea con una quota del 9,9%, dietro alla Germania (34,8%) e seguendo da vicino i Paesi Bassi (10,6%), ma precedendo la Francia (6,7%), il Belgio (4,6%) e il resto dell’Italia (4,5%).

 

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di Enrico Quintavalle, Responsabile dell’Ufficio Studi di Confartigianato

(Fonte: IlSussidiario.net)

 

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